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“Persone che curano” non solo per lavoro, ma anche per umanità

Questa è una testimonianza in prima persona, un racconto doloroso ed emozionante

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Luca Bonvini - Officina impianti GPL e metano - Senigallia
ospedali, sanità, cure

Ci sono dei momenti nella vita in cui bisogna fare delle scelte in radicale libertà di spirito e cuore, solo spirito e cuore, è una libertà imprescindibile che tuttavia la realtà e i tecnicismi costruiti con sapienza e speranza di superare i limiti naturali o connaturali, a volte rischiano, anche tacitamente, di sottrarti.

Mi sono trovata nella condizione di dover fare questa scelta, mi sono sentita richiamare dalle sirene che millantavano altro e decine di professori che avevano una ricetta giusta per ogni dubbio o  richiesta tranne che per il mio innocente desiderio di stare accanto a mio marito fino alla fine, scegliendo la libertà di esserci e di starci con tutta me stessa. La malattia non è mai facile da gestire, ma se arriva all’improvviso, con una carica di pericolosità altissima perchè afferente alla famiglia dei tumori, si hanno due bambini piccoli e, oltre al marito che è il “nuovo” malato, un padre in fin di vita per  un’altra malattia diagnosticata mesi prima, direi che le cose si complicano, abbastanza.

Non esistono soluzioni preconfenzionate per queste situazioni, esistono delle possibilità che ognuno può avere e delle capacità che si possono mettere in campo ma, la cosa più importante è che bisogna trovare il filo rosso da seguire: quello che lega e dipana e scioglie i nodi c’è sempre, ormai lo posso affermare per esperienza, a volte è troppo bagnato dalle lacrime e sembra non voglia sciogliersi ma poi basta non tirare, allentare un po’ la presa, ed il filo si scioglie di nuovo e scorre. Il filo rosso si chiama Vita, nella sua più grande e straordinaria accezione, in quell’accezione che risuona del pianto dei figli appena nati, dei sorrisi dei giorni di matrimonio, delle litigate per i lavori da scegliere e fare, del rumore del mare, delle code al supermercato, delle serate tra amici, delle remore per dove andare in vacanza o per il poco sonno accumulato da quando la famiglia è raddoppiata. Dopo aver trovato il filo rosso, bisogna anche fare in modo che nessuno, e dico nessuno, te lo tolga dalle mani. Non esistono specialisti, dotti, e scienziati di alcuna categoria che possano tenere quel filo al posto tuo o meglio di te: esiste il tuo filo rosso e la tua libertà di tenerlo ed esserci, o di lasciartelo sfuggire.

E’ sempre una questione di scelta e, non scegliere, in alcuni momenti, equivale a rinunciare a vivere. Non ci sono momenti oggettivamente facili o difficili; la densità, complessità e carica emotiva di ogni persona stabilisce una unicità di esperienza e di vissuto per cui le situazioni diventano intimamente personali e soggettive. La mia storia non ha nulla di speciale rispetto a molte altre se non l’unicità delle persone che l’hanno abitata e la preziosità e fragilità di essere umana, fino alla fine.

Ammalarsi improvvisamente a 38 anni, come è successo a mio marito, ingarbuglia abbondantemente il filo rosso e soprattutto in diversi punti: come è possibile? ma stava bene, e adesso? cosa succederà? e ai bambini? cosa diciamo? e il dottore cosa dice? e..? e..? Da quando si diviene consapevoli di aver incontrato una malattia, qualunque essa sia ma con una previsione di ripercussioni della durata di settimane e mesi, il tempo comincia a viaggiare a due velocità, inizia a sdoppiarsi: il filo rosso perde la sua banale ed univoca velocità e comincia ad acquisire un ritmo diverso, quasi a sdoppiarsi. La scansione cronologica degli eventi legata alla malattia di mio marito mi ha fatto risuonare dentro un ricordo del liceo classico in cui si parlava della divisione delle divinità del tempo: per gli antichi greci infatti c’erano almeno tre modi di indicare il tempo: aion, kronos e kairos. Aion rappresenta l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo, è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; Kronos indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore; Kairos  indica il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, con una certa approssimazione, quello che noi oggi definiremmo il tempo debito.

Kairos viene raffigurato come un giovane con le ali sulla schiena e ai piedi, che regge una  bilancia che lui stesso con un dito disequilibra;  non ha capelli dietro la testa ma solo un lungo ciuffo che gli pende di lato. Le ali stanno ovviamente a significare che l’occasione ci passa accanto velocemente, il ciuffo sul fianco e la mancanza di capelli sul retro della testa, che bisogna afferrarla quando si presenta perché, perduto l’attimo, diventa imprendibile. Se Kronos rischia di celare e omettere l’intensità e la profondità dell’esperienza vissuta perché voracemente inghiotte attimo dopo attimo la nostra vita facendoci guardare al passato o al futuro tralasciando il presente, dall’altra parte invece se ci si ferma e si dà spazio a Kairos, allora emerge tutta la grandezza e l’occasione celata in quel momento. Seguendo Aristotele, si scopre che Kairos è il contesto del tempo e dello spazio in cui la prova sarà affrontata, è lo sviluppo di un tempo svincolato agli dèi, in cui si colloca l’autonomo agire dell’uomo. Nel momento in cui si è chiamati a scegliere, si decide se accogliere Kairos nella propria vita o se lasciarsi trascinare da Kronos.

Nella storia della malattia di mio marito, io e lui, più o meno consapevolmente abbiamo deciso di trasformare quella serie cronologica di interventi, diagnosi, prognosi, e verdetti, in occasioni: la nostra umanità è emersa in tutta la sua intensità e incredulità. Il tempo vissuto è stato kairos: occasione, grazia di crescita e di prova. Nessuno dei due avrebbe mai creduto di trovarsi in quella situazione; nessuno dei due avrebbe mai creduto di riuscire a viverla insieme; nessuno dei due avrebbe mai pensato che nella disgrazia della malattia si celasse il segreto della Vita e la bellezza dell’Amore tenuti dallo stesso filo.

Tra il giorno del primo inaspettato intervento e il suo decesso, sono trascorsi 84 giorni.  Solo 84 giorni. Meno di tre mesi. A livello numerico sono di più le pagine che compongono questo volume, che sono circa 200. (Solo per chiarezza specifico che l’intervento è stato inaspettato per gli esiti che ha dato; all’entrata in sala operatoria né lui né noi della famiglia, sapevamo quello di cui si sarebbe operato, speravamo in un esito non troppo complicato ma la condizione in cui è entrato non era affatto chiara.) Alla sua uscita dall’operazione niente sarebbe stato più come prima e, onestamente, anche tutta la fiducia nella medicina che prima era intrisa di Vita e di speranza, inizia ad opacizzarsi, a prendere le sfumature scure e incomprensibili di un carcinoma. (Per scelta mi fermo a questa definizione, di carcinoma, e non approfondisco qui e non sto ad elencare nome cognome, parentela di questa malattia perché non mi sembra la sede opportuna e soprattutto perché non è al centro del mio interesse parlare di ciò). Io, lui, i nostri figli, i suoi genitori e i suoi fratelli, gli amici e le relazioni tutte coinvolte, abbiamo avuto 84 giorni per non perdere il filo rosso, per accorgerci di cosa stava succedendo, cercare di rielaborarla o perlomeno tradurla a noi stessi, ai figli, decidere cosa fare, scegliere, provare, ascoltare pareri, chiedere altri pareri, fare visite, mettere Picc, scintigrafia ossea e altro ancora. Purtroppo però, in 84 giorni non si diventa infermieri, né dottori, né Oss, né psicoterapeuti, ed è forse per questo che ho ancora bisogna di parlarne e di scrivere e di condividere la nostra esperienza, perché l’intensità, la sofferenza e la bellezza di quei momenti, le mille sfumature legate ad ogni istante in qualche modo non vadano perse dalla mia memoria, non vengano sovrascritte da altre situazioni. Terminato il primo intervento, mio marito, per complicazioni avvenute, è stato operato nuovamente dopo pochi giorni, poi dopo una ventina di giorni di degenza presso il reparto di Chirurgia, è finalmente tornato a casa: il primo tempo della malattia era finito, ora ci sarebbe stato l’intervallo e poi si sarebbe avviato il secondo tempo. Il periodo in cui mio marito era a casa coincideva con la preparazione del Natale, e, per il profondo senso di riconoscenza che lo ha sempre contraddistinto, ha voluto preparare dei pacchi dono per i medici e gli infermieri che lo avevano assistito; per lui era fondamentale che l’altro fosse riconosciuto per il suo lavoro e per la sua umanità; di seguito riporto uno stralcio della lettera scritta da lui agli infermieri del reparto di Chirurgia:

Quanto importante sia – per il paziente e per i suoi familiari – la costante presenza di personale attento, professionale, disponibile, generoso, consapevole delle proprie capacità e dei propri umani limiti. La vita mi sta riservando prove dure, del tutto inaspettate e certamente al di sopra delle capacità umane di comprensione. Non si possono affrontare certi ostacoli col metro della razionalità. Per questo vi ringrazio. La cifra umana del vostro reparto ha assicurato a me (e, ritengo, a tutti gli altri pazienti che hanno avuto il privilegio di essere sottoposti alle vostre cure) la consapevolezza di non essere solo. Siete stati in grado di trasformare uno dei periodi più bui della mia vita in un momento di crescita e grande maturazione”.

La cifra umana”, e “la consapevolezza di non essere solo” non sono materie che si apprendono negli atenei, non sono nozioni che si acquisiscono, bensì sono caratteristiche imprescindibili del nostro essere uomini nell’accezione più vera e sfacciata che ci possa essere: l’uomo è un essere relazionale non è fatto per stare da solo e/o per vivere da solo, la solitudine lo appassisce e lo fa lentamente e interiormente morire poiché incapace di esprimersi, di essere uomo. La cifra umana d’altra parte, è la risposta che ognuno di noi dà ad una domanda antica che riecheggia nell’intimo, a cui non sempre si tende l’orecchio e forse per alcuni è meglio mettere a tacere, ma che ha il suono di queste parole: “Dove sei?” e su cui, Martin Buber, filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano, in un libro che si intitola proprio Uomo dove sei?, esprime il seguente pensiero: “A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque “il cuore tremerà”, proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è “la voce di un silenzio simile a un soffio”, ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto” . Qui inizia il cammino dell’uomo (1). Dentro il reparto di un ospedale, in qualche modo, è cominciato il cammino di uomo di mio marito ed anche il mio, abbiamo scoperto sulla nostra pelle e tra le nostre lacrime che non esiste una certezza di quale sarà e come sarà la fine, ma che in realtà andarci insieme è possibile, e far intravedere la strada ai propri figli è altrettanto possibile, non facile, ma possibile. Da quando abbiamo iniziato a camminare, abbiamo rispolverato il filo rosso, quello fatto di piccoli gesti, di momenti di silenzio ma di tregua dal dolore fisico, di sorrisi preparati per l’incontro strappato ai divieti ospedalieri coi figli, di strette di mano dense di un amore altrimenti inesprimibile. Mettersi in cammino non è scontato, rispondere ai propri interrogativi ancestrali tanto meno, ma non esiste professionalità che valga senza un’umanità pulsante, non esiste conoscenza tecnica che possa toccare il cuore se non è accompagnata da un mettersi in ascolto, in relazione. Quando si diventa ammalati, la relazione tra curante e curato si complica e si riempie di ostacoli, il terreno su cui si cammina inizia a cedere perchè la comunicazione si fa complessa e non sempre reale e comprensibile, poiché per accettare che la medicina non abbia più soluzioni da offrire e poter offrire è necessaria una grande dose di umiltà e umanità e dall’altra parte accettare di non avere la cura giusta ai tuoi mali non è affatto facile, al contrario, sembra impossibile. Dopo l’uscita dall’ospedale, per la malattia diagnosticata abbiamo seguito tutto l’iter di visite e pareri, abbiamo chiesto anche fuori dall’area ospedaliera regionale per essere certi di avere la situazione meno confusa possibile. Il cammino sembrava in salita ma con un po’ di organizzazione  e di ottimismo poteva essere ancora di una buona lunghezza e praticabile tutti insieme.

Però, poco dopo, l’intervallo era finito, incominciava il secondo tempo della malattia, in cui le previsioni sono state disattese e le speranze hanno iniziato a ridursi, i dolori a riemergere e il rientro in ospedale inevitabile. Il giorno di Natale, egli è rientrato in ospedale e dopo una decina di giorni di supposizioni e previsioni ha subito un altro intervento, l’ultimo perché da quell’intervento è emerso che il carcinoma era ormai molto molto diffuso e ricresciuto e molto molto aggressivo e “andava come un treno in corsa”.  Da quel momento la strada non è sembrata più in salita, anzi è sembrata fermarsi, davanti una distesa vuota, il filo rosso perdere la sua intensità e iniziare a mescolarsi ad un vortice di sentimenti e risentimenti, di paure e di incomprensioni. In quel momento, il mio malato terminale mi ha riportato in mano il filo e mi ha indicato la strada da seguire: l’ha indicata a tutti quelli da cui si è fatto curare negli ultimi venti giorni di ospedale, anche se non tutti hanno avuto il coraggio di guardarla. Mio marito con il sondino naso-gastrico e la stomia per le feci mi ha insegnato che non serve essere in perfetta salute per compiere gesti d’amore; con il suo filo di voce e la bocca riarsa mi ha ricordato quanto è buona l’acqua fresca da sorseggiare; mi ha mostrato quali sono gli occhi con cui guardare i propri figli, quelli che lui riusciva a far brillare ogni volta che li incontrava nonostante il dolore e la sofferenza tra il doverli lasciare e il volerli ancora amare; mi ha ricordato che la famiglia per quanto imperfetta e talvolta indigesta è il luogo più caldo dove crescere e poter tornare; mi ha detto che di momenti belli ne avevamo già avuti tanti insieme  io e lui e che ora era il momento di allentare la presa e affidarsi.

Era iniziato quel momento in cui in gergo medico si dice “non c’è più niente da fare”, e sebbene entrambi lo avessimo compreso, tuttavia non c’è stato giorno, istante o momento in cui in realtà non abbiamo “fatto” quello che in 18 anni di vita insieme non avevamo avuto modo di fare. Più che una dimensione del fare è stata una dimensione dell’essere presente, in cui non è semplice stare e volerci rimanere ma è una strada percorribile. Io tenevo il filo rosso, lo tenevo stretto, mentre stavo con lui la mattina, mentre il pomeriggio stavo coi bambini cercando di spiegare ciò che non si spiega, cercando parole che loro trovavano prima di me e che puntualmente ribaltavano con le loro domande, tenevo il filo rosso e l’ho tenuto fino alla fine, fino al suo ultimo respiro e poi mi sono chiesta: E adesso questo filo? Questo filo se è Vita adesso che la sua Vita non c’è più che cos’è? cosa vale?” Allora ho provato a ripercorrerlo a ritroso, e ho deciso insieme alla sua famiglia che forse quello che si era vissuto insieme valeva la pena raccontarlo e dirlo, non per chissà quale mania di protagonismo ma per il desiderio di far conoscere una dimensione della cura e dell’accompagnamento che va aldilà di una cartella clinica e di un iter da seguire; una dimensione della cura in cui vita e morte si fiancheggiano ma non si osteggiano, in cui si cerca un ritmo, un passo a due da trovare. Per questo poco dopo la morte di mio marito è nata l’Associazione l’Amore Donato onlus, per portare avanti la cultura della vita, la diffusione delle cosiddette cure palliative (che noi della famiglia abbiamo attuato in modo naturale ed inconsapevole pur non conoscendole) e fare in modo che la medicina e la scienza non siano soluzioni autodeterministiche nel momento in cui insorge una malattia, bensì che siano luogo di incontro tra saperi, tecniche ed umanità, in uno scambio reciproco per una cura che possa prendere in carico tutta la persona e non solo la parte malata di essa. Adesso, a distanza di quasi tre anni da quell’inizio del cammino sono sicura che il filo rosso, quella della Vita, non lo tengo io, ma Qualcun’altro, che io chiamo Dio e che voi o chiunque può chiamare o non chiamare come preferisce, ma io so che il filo rosso è il filo della Vita di ognuno di noi, e la vita è un dono, e che mio marito, Donato, è stato testimone di questo.

Accogliere il dono della vita fa parte del “mestiere” di essere uomo, è un’arte che si apprende lentamente attraverso le esperienze che si fanno e le opportunità che ci sono date, non esiste una strada giusta o sbagliata da percorrere, esiste la propria capacità limitata e determinata per affrontare quello che ai nostri occhi umani è impossibile, in uno scambio continuo e reciproco tra noi e gli altri, sempre. “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (2).

Questo vuol essere il mio modo di dare spazio a ciò che dopo la malattia e la morte seppur nel dolore può emergere, a ciò che nonostante tutto e soprattutto nonostante me, guida il mio filo rosso e mi permette di incontrare ancora professionisti e amici che hanno desiderio di mettersi in cammino, ancora, e di conoscere “persone che curano” non solo per lavoro, ma anche per umanità, e così facendo, possono curare anche quella parte di me che in quegli 84 giorni è stata ferita e che stenta a rimarginarsi.

(1) Buber M., Uomo dove sei?, Quiqajion, 2012, pag. 2

(2) Calvino I., Le città Invisibili, Mondadori, 2006, pag.164.

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