Intervista ad Alessandro Haber a Corinaldo con “Il Padre”
"Voglio lasciare uno spunto di riflessione, un turbamento: è questa la mia prerogativa"
Alessandro Haber si prepara ad inaugurare la stagione del Teatro Goldoni di Corinaldo: martedì 16 gennaio sarà in scena con “Il Padre”, opera incentrata sulla delicata tematica dell’Alzheimer, che sta riscuotendo un successo più unico che raro nei teatri di tutta Italia.
Haber interpreta Andrea, un uomo molto attivo, nonostante la sua età, che inizia a mostrare i primi segni di una malattia che potrebbe far pensare al morbo di Alzheimer. Anna, sua figlia (interpretata splendidamente da Lucrezia Lante Della Rovere) che è molto legata a lui, cerca solo il suo benessere ma l’inesorabile avanzare della malattia la spingerà a proporgli di stabilirsi nel grande appartamento che condivide con il marito. Lei crede che sia la soluzione migliore per il padre che ha tanto amato e con cui ha condiviso le gioie della vita. Ma le cose non vanno del tutto come previsto.
Abbiamo intervistato Alessandro Haber prima del suo debutto sul palco corinaldese: l’artista ci ha spiegato la genesi di questo spettacolo, raccontandoci le riflessioni che un lavoro così profondo su questa realtà porta con sé.
Quale è stato il suo primo approccio al testo di Florian Zeller? Come ci si prepara a calarsi nei panni di un persona che inizia a perdere progressivamente la coscienza di sé?
La prima volta che ho letto il testo di Zeller, circa 4 anni fa, non lo avevo capito fino in fondo, dissi “Non è il caso”; poi me lo riproposero due anni dopo, lo rilessi a distanza di anni e finalmente mi fu chiara la forza del personaggio e della scrittura. Zeller, autore meraviglioso che scrisse “Il padre” ad appena 32 anni, ha avuto l’intuizione geniale di mettere il pubblico nella testa di questo personaggio, così da fargli vivere le stesse ansie, gli stessi smarrimenti, le stesse paure e lo stesso spegnersi di questo uomo. Personalmente non mi sono informato molto su questa malattia: ho usato la mia sensibilità come chiave per immergermi nel protagonista, mi piace affrontare i personaggi “da solo”, calarci dentro le mie visioni, cercando di dare sempre una verità del loro essere. Dopo un po’ di prove, venne a trovarci la Presidentessa dell’Associazione Nazionale dell’Alzheimer e ci ha spiegato che le persone affette da questa patologia hanno dei momenti di lucidità: quando tornano in sé sono terrorizzati, hanno la percezione che ci sia qualcosa che non va e quindi diventano anche aggressivi, cattivi. Questa considerazione mi ha aiutato per il resto, la camminata, lo stupore me lo sono costruito da solo. A conferma della veridicità del lavoro, sono tanti i medici o le persone vicine a questa realtà che mi hanno detto quanto la mia interpretazione sia aderente al reale vissuto dei malati e questo non può che non farmi molto piacere.
– Quale è il segreto di questa pièce che sta riscuotendo un successo clamoroso su scala nazionale come testimonia il numero altissimo di repliche, caso più unico che raro?
Io cerco di fare sempre degli spettacoli che lascino qualcosa: questo è un testo che non voleva fare nessuno; nel primo anno facemmo solo 32 repliche. Un testo sull’Alzheimer spaventava, poi la potenza dello scritto arrivò ed ora non sappiamo a chi dare i resti: è una battaglia vinta. Personalmente cerco sempre di mettermi in gioco: la sfida, nonostante i timori inziali, è stata una scelta importante. Mi piace lasciare un segno negli spettatori: quegli spettacoli dove le persone vengono, ridono due ore e poi se ne vanno come prima di essere arrivati non mi interessano: voglio lasciare uno spunto anche di riflessione, un turbamento, è questa la mia prerogativa. Quando sono in teatro voglio essere padrone di quello che faccio, cosa che non è possibile fare quando si recita in un film: in quei casi non sei tu che “cavalchi la belva”, dipende da un regista che taglia, monta, cuce… invece in teatro mi sento le redini in mano.
– Si è immerso in questo lento oblìo che offusca la mente: quali riflessioni le ha innescato questa esperienza teatrale?
E’ una cosa che ti fa riflettere tanto, che ti arricchisce; uno testo così, nella sua tragicità e nella sua forza, ti pone di fronte a domante e pone l’accento su una tematica che riguarda da vicino milioni di persone. Chi conosce in prima persona questa realtà, venendo a teatro, rivive un pò la propria situazione, dall’altra però c’è un vero e proprio processo di catarsi. E’ uno spettacolo dove si ride anche ma il percorso è tracciato e porta all’offuscamento della mente, un evento grandissimo e triste che fa parte della vita.
– Qual è il suo rapporto con la memoria e con i ricordi?
La memoria è ancora viva! Il passato sicuramente mi da forza: guardo indietro e penso agli inizi, ai tanti sogni, molti di cui si sono realizzati: questo mi dà molta gioia anche se, a dire il vero, non ho grosse certezze; mi sento uno che fa ancora la prima elementare, non mi sento una persona “arrivata”, aborro quella parola. Io sono ancora il bambino che gioca con i suoi giocattoli, che ricerca, che inventa: la consapevolezza però di tutti gli anni passati, le confesso che un po’ di ansia me la mette, ci penso a questo “gioco”, un po’ mi turba, un po’ mi strazia; credo sia inevitabile pensarci anche perché vedi che molti “pezzi” se ne vanno e presto o tardi toccherà anche a me! Ma dall’altra parte, credo che regalerò ancora per un po’ emozioni a me e agli altri!
– Il Padre è un testo attualissimo: anche se si estrapola la tematica dell’Alzheimer e la si sostituisce con quella del normale declino dato dalla vecchiaia, ci parla di come chi non riesce a reggere il passo e la velocità dei tempi moderni diventi un peso. C’è un momento dove il personaggio di Lucrezia Lante della Rovere sogna di ucciderla, un pò quello che succede in “Parenti Serpenti”, cult di cui faceva parte: crede che esista un’altra strada praticabile oltre a quella di mettere da parte colui che non tiene il passo?
Dipende dalle persone: io credo che se uno ha un’anima non può pensare solo a sé stesso e mettere da parte tutto il resto…dipende dall’amore, dalla voglia di mettersi in gioco, di sacrificarsi che si ha per gli altri; conosco figli che accudiscono in maniera totale i propri genitori. Certo, anche per un figlio diventa dura nel momento in cui viene meno la lucidità; questo non legittima l’abbandono, ma il cercare di sistemarli, si. Cercare di vederli il più possibile nonostante spesso non si venga nemmeno riconosciuti rimane a volte l’unica cosa da fare.
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