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Corinaldo: con Giovanni Giulioni scompare un pezzo della comunità contadina

Il toccante ricordo del contadino, morto a 95 anni, da parte di Massimo Bellucci

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Giovanni Giulioni

In una foto di qualche anno fa, scattata durante la rievocazione della trebbiatura a San Domenico di Corinaldo, c’è un trattore che traina piano una vecchia trebbia, di quelle che arrivavano sull’aia, dove già c’era il barcone del grano, con l’oca arrosto già sul forno, la tovaglia stesa a terra all’ombra del grosso gelso per il grande pranzo insieme, quando si mieteva con la falce fienaia.

Sul sedile del trattore, accanto al guidatore, c’era Giovanni Giulioni, nato nel 1921, contadino, scomparso alcuni giorni fa. E’ un complesso universo quello che se ne sta andando insieme a quella generazione, un universo racchiuso in un campo di grano. Le aie adesso sono vuote, ma un pomeriggio di qualche anno fa si sono riempite di racconti, con Giovanni, Fiorino ed altri, davanti a casa sua, in un caldo pomeriggio: storie di fatica nei campi. Fatica durissima e povertà: si mangiava il pane duro, la fatica era tanta, “non l’auguro a nessuno la vita come l’abbiamo fatta noi”. Si mieteva con la “falce fenara”, strumento e simbolo della pesantezza del lavoro. La sera quella falce doveva diventare pesantissima. Sforzo muscolare e di coordinamento del gesto. “Noi faticavamo coi bracci, non con la testa” diceva Giovanni Giulioni. C’era il fattore, il padrone, la divisione del raccolto a metà, per la famiglia del contadino spesso rimaneva poco a fine anno. Eppure da tanti racconti di quella generazione di contadini c’è un altro aspetto, un senso di fratellanza, di serenità che sembra essersi dissolta proprio quando il tenore di vita cominciava a migliorare.

Una signora qualche anno fa disse: “C’era… non so come dire… c’era più fratellità”.

Giovanni GiulioniDisse proprio così, inventando una parola nuova che rende l’idea di ciò che abbiamo perso. I contadini non avevano nulla, tranne una cosa, la comunità. Non era poco. Erano una grande famiglia dove ognuno era importante. Dove si faticava ma le sere d’inverso si giocava a carte nella stalla. Niente confort, pochi servizi, tanta fatica. Le cose semplici che diventavano preziose. Un signore mi ha raccontato, qualche mese fa: “Il bello della campagna è che si facevano le cose sempre insieme, una volta noi aiutavamo gli altri, poi gli altri aiutavano noi, era bello. E anche se c’era la fatica la sera si cantava. Adesso invece sono tutti nervosi per qualche motivo…”.

Adesso fatichiamo meno con le braccia e più con la testa. Ma è possibile che abbiamo dimenticato tutto quel mondo così in fretta?
I covoni, il barcone, la mangiata insieme con le tagliatelle e l’oca arrosto, sembrano robe vecchie, molti pensano che eravano arretrati. Ma è proprio così?

Quante cose avrebbe ancora da raccontarci Giovanni Giulioni!

E il paradiso forse è un grande campo di grano dove i contadini mietono insieme, e poi la sera cantano, ma la falce fienaia è leggera come l’arietta fresca sotto l’ombra del gelso.

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