Addio a Giuseppe Rossi, una delle figure più conosciute di Corinaldo
Aveva 92 anni. “Mi alzavo alle cinque ed accendevo 18 stufe”

Giuseppe Rossi, il bidello, il sagrestano, ma prima è stato falegname e soldato sul fronte slavo, poi storico suonatore della banda cittadina, esperienze diverse, alcune forti, racchiuse in un fisico esile, come quegli arbusti che il oscillano al vento, senza spezzarsi, il vento di un inverno che si è fatto attendere, ma che è arrivato col suo freddo, portandosi via a 92 anni una delle figure più conosciute di Corinaldo.
Un mese fa circa ho fatto un breve giro a Corinaldo con un nuovo amico che si è trasferito nelle Marche dalla Sardegna. Quattro passi per le vie del paese, poi sulla “terrazza” sopra Porta San Giovanni, dove è possibile vedere il paesaggio agrario e una peculiare prospettiva del centro storico, un posto tra i più belli. Vicino al chiosco su una panchina c’era Peppino Rossi, seduto, con le due mani appoggiate al suo bastone diritto davanti a sé. Lo presento al mio ospite: “Come va?” Lui risponde oscillando la mano, “Ho novantadue anni, non sono pochi, la mia vita l’ho fatta!”.
Quando l’anno scorso l’abbiamo incontrato e abbiamo registrato il nostro colloquio, mi ha colpito la precisione con cui ricordava scalini, finestre, stufe della scuola: “Ho cominciato a fare il bidello nel 1946, c’erano 72 finestre da pulire, ma non finestre piccole come questa… Dal primo novembre al 30 aprile mi alzavo alle cinque per accendere le stufe, erano 18…”.
Contadini e operai facevano sacrifici per mandare i figli a scuola, per farli studiare, perché la cultura era importante, consentiva di capire il mondo, aiutava a trovare un’occupazione migliore rispetto ai padri o i nonni. E mi piacerebbe non usare il passato, ma il presente e il futuro per queste affermazioni. E la legna portata da Peppino lungo i 94 scalini della scuola elementare rappresentava la quotidiana fatica per superare le sofferenze della guerra, per risalire dal fondo di un paese distrutto, che ha saputo risollevarsi anche grazie allo studio, grazie anche ai bidelli e ai maestri, come Emilio Montironi, scomparso mesi fa.
Molti ricordano Peppino quando passava, durante la S. Messa, con una borsa di cuoio scura e una lunga fessura in cima, tenuta aperta da due dita, che ogni tanto scuoteva facendo suonare gli spiccioli all’interno, avvisando del suo arrivo; la gente faceva cadere la moneta con una lieve nota acuta che accompagnava la predica di don Piero Pierini, che qualche volta citava S. Agostino; nonostante i riferimenti elevati si faceva capire da tutti, anche da noi che eravamo bambini. E intuivamo che ci stava portando qualcosa di importante da un tempo lontano, da una sapienza antica, arrivata sino a noi risalendo lungo le scale dei secoli, come la legna buona delle stufe di Peppino, che riscalda le coscienze. Don Piero Perini: capelli d’argento e volto coi lineamenti diritti, precisi, come le linee delle belle figure geometriche, quelle disegnate bene nelle pagine dei vecchi sussidiari delle scuole elementari, quando non c’era un computer su cui scrivere una parola e ottenere cento risposte, dandoci forse l’illusione di imparare senza sforzo.
Una scuola d’altri tempi dove c’era un unico bidello, un’unica maestra e dove, dalle grandi finestre coi vetri puliti, i bambini potevano guardare fuori, il grande, spaventoso e intrigante mondo che si srotola tra palazzi, colline, case, campi, vigne, strade e speranze, verso l’orizzonte.
Massimo Bellucci
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